Umanità come dignità della persona, come responsabilità dell’individuo. Ogni cantore, nella “compagnia” di pellegrini, attinge ispirazione dalla fede, dall’entusiasmo, dalla smania spirituale e dionisiaca eccitata dalla presenza dei compagni di strada e dal miraggio della meta del santuario, della convenienza e convergenza comune, e ognuno fa i conti con la propria personale ricerca e spiritualità, con la valutazione del peccato e del miracolo, dell’errore (pellegrinare = errare) e della grazia, in una condizione dialettica senza fine, diretta, senza intermediazioni con l’infinito che ha nome “La Santissima” di Vallepietra o San Cataldo di Supino, senza internet: il viator e il santo sulla stessa arena, due gladiatori alla pari, con devozione, risentimento, turpiloquio, irriverenza, ravvedimento, estasi.
“O Sanctissima” e “Vergin Santa” sono due canti popolari, colto il primo (del sec. XVI, siciliano e presente anche nell’innario luterano) e popolare l’altro, per il “Divino Amore”.
La breve citazione del Magnificat di Terenzi è la risposta giubilante al dolore di una infermità inflitta senza riparo nella piena giovinezza.
“La Desolata” è il racconto della passione dalla parte della Madre Addolorata. È stata raccolta da zia Marietta a S. Sebastiano di Supino, sui monti lepini. È antica, come dimostra la lingua colta che, attraverso i secoli di contaminazione, conserva ancora la struttura aulica degli endecasillabi.
Presenta una parte cantata e una recitata. Non condivide il pathos umbro del Laudario di Todi o di Cortona: è piuttosto un breve dramma psicologico ed emotivo di genere (ci permettiamo) scespiriano, come è dimostrato dall’ultimo distico “Niciuno steva che la raccolleva, steva Maria i Madalena sola” e da altri frammenti di forte impeto teatrale.
“Gliu Verbo”, anch’esso in endecasillabi, raccolto sempre da zia Maria, veniva cantato da Rosa Vespasiani, mia madre, durante i temporali, “per quelli che stanno in mare”, così mia madre nel suo italiano perfetto. È una breve composizione in forma di “Threnos”, salmeggiante, di contenuto votivo, apotropaico e magico, è una cieca testimonianza di fede “Verbo so ditto i Verbo voglio dice”, ricevuta e tramandata, secondo la profetica solennità del Vangelo di Giovanni.
Il Magnificat latino (laziale, regionale, all’amatriciana, all’arrabbiata) per Peppe Bravo è un omaggio, di tenera barbarie lepina, a Giuseppe Mancini, detto Peppe Bravo (coraggioso, prepotente) morto nel 1936.
Peppe Bravo era pastore, viveva sempre a Santa Serena di Supino, scendeva solo per S. Cataldo, S. Antonio e per procreare.
Io l’ho visto quando ero bambino: in piedi, alto, imperativo, con l’orecchino di oro e di corallo, come potrei immaginare che lo portasse Numa Pompilio per Egeria. Suonava la zampogna. Abitava la antica capanna con anello nuragico di sassi e copertura vegetale a cono. Intorno: i fagli lepini, i maiali selvatici, i cani, le pecore, le ieratiche vacche giottesche, la zampogna. Ogni estate, al solleone, con torva commozione, ritorna nel sacro profumo dell’elicriso.
Giuseppe da Supino
Umanità delle antiche voci – Maggio 2009