È un mistero che la critica non abbia ancora operato una indagine circostanziata – soprattutto successione nella cronologia e nello stile – delle opere di Vivaldi, almeno per le opere maggiori. Ma del “Dixit” in Re maggiore per doppio coro una notizia, ricevuta per tradizione, assegna alla fastosa partitura la sede di San Lorenzo in Damaso, la chiesa bramantesca e palatina del Palazzo della Cancelleria Apostolica, cioè il centro politico della Amministrazione della Dominante.
L’idea della Romanità che si poteva ricostruire in una città che, come Venezia, collegata quale cardine o cerniera fra due civiltà contrapposte, avrebbe rappresentato benissimo la sede di uno scisma o di una anti–Roma, era l’idea di ossequio, di riverenza, di ortodossia che è facilmente leggibile nella partitura del “Dixit”. Non bisogna dimenticare che tutto era provinciale di fronte a Roma, e non soltanto in senso confessionale.
Negli stessi anni presunti del “Dixit”, a Roma, in Villa Albani, diecimila gemme incise– etrusche, greche, latine– aspettavano nel chiuso splendore dello Studiolo del cardinale di essere classificate da Winckelmann che, a Roma, rinnega il tedesco, si converte, perfeziona il suo metabolismo (“i miei funzioni marciano bene”), parla greco e latino come Paolo di Tarso o Agostino da Ippona o San Girolamo, in tutto trasfigurato dalla romanità.
Vivaldi, del quale non ci sono testimonianze che sia mai stato a Roma, pensa a Roma più da musicista che da prete, immagina la forza della effettiva grandezza di Roma, il Cattolicesimo, il Dogma, la Teologia e, insomma, la Liturgia: alla dottrina scolastica della Summa romana dedica, a pari merito, la dottrina canonica del contrappunto, musica dedicata a un potere occulto ma esplicito nella severità del “Non possumus”.
Tale idea di bagliore e di fasto faraonico nella città che il Pontefice percorre in sedia gestatoria al riparo dei grandi flabelli egiziani, è contenuto non tanto nelle arie dei solisti ma segnatamente nella meccanica celebrativa dei cori a otto parti reali. È con un senso della grande Accademia rituale romana, durante la quale ogni trionfo è tanto simile a un linciaggio, che Vivaldi scrive una musica del tutto inusuale, con l’uso arcaizzante e antiquario (quindi eminentemente settecentesco) di un sistema caro agli esordi della polifonia. Infatti la presenza del Canto Fermo su note di lunga durata e l’unisono iterato di coro e orchestra sono i sintomi di una deferenza del musicista alla sua coscienza, di Venezia a Roma. E anche quando, nel “Sicut Erat”, le semicrome squarciano la partitura come il Velo del Tempio, l’ispirazione è sempre dominata, controllata e lanciata all’attacco, perché la sua essenza non è emotiva ma ideologica.
Il sogno di Roma è più grande della realtà veneziana quando smessi gli splendori delle musiche battenti, attenuati i vantaggi delle mercature e delle delazioni, a Venezia calavano le commesse e si disertavano gli arsenali, perché l’ultima battaglia di navi era ormai soltanto una memoria nelle acque greche di Lepanto.
G. Ag.
Dal Programma di Sala del Concerto: VIVALDIANA – 2007