Il concerto si basa su un programma dal forte contenuto antiquario. In una parte della sua responsabilità di compositore, Monteverdi affida la carica di protagonista al repertorio dei primi momenti della polifonia (circa 1150), diciamo il periodo cistercense della storia sociale dell’arte, della cattedrale di Chartres o di S. Maria Maggiore a Ferentino.
Il metodo del canto fermo ha inaugurato la polifonia, cioè la geminazione o gemmazione del monolito gregoriano. Nel Magnificat tale tecnica, capace di trasfigurare un meccanismo elementare nella esaltazione o apoteosi del pensiero umano, è talmente evidente da essere compresa anche dai profani.
Altro elemento delle origini, cioè “prisco”, è il contrappunto, cioè la musica canonica stretta del “Gloria” in cui la imitazione delle parti si gioca alla distanza prodigiosa di un solo “tactus”.
“Ludus musicus” per antonomasia è la ripetizione ostinata del basso nel Laetatus Sum, segno distintivo di un gioco di abilità funambolesca di cui Monteverdi appare l’impareggiabile giocoliere.
Il vero dilemma è l’apparente discrepanza o incompatibilità tra la frequentazione delle forme arcaiche e la sua statura di indiscutibile protagonista dell’azione musicale del seicento.
Questo grande e affascinante quesito stilistico e morale è qui appena enunciato. Ma è perfino troppo chiaro il pensiero del grande rivoluzionario barocco: ogni evoluzione è possibile soltanto attraverso la modulazione del grado di adattamento o di critica della ragione e del patrimonio storico.
Giuseppe Agostini, Cantor
Maddalena – 19 aprile 2008