Cari e virtuosi sodales,
stamattina, all’Aula Magna, omnes àderant, c’erano tutti, a parte il prof. Marietti, nostro patronus.
E tutti hanno potuto sperimentare, con ammirazione, forse con stupore, il potere del nostro messaggio o testimonianza musicale. Io stesso, per celebrare la esecuzione di Janequin, ho fatto ricorso a immagini di simmetria e ordine eterno delle costellazioni o ai prodigiosi commessi marmorei dell’opificio delle pietre dure di Firenze.
La nitidezza, la concordia, la felicità dionisiaca del volo, una specie di rapimento e di lucidità imperiosa hanno pervaso la nostra coscienza, irradiandosi sugli ascoltatori, creando un equilibrio rarissimo, che andrebbe studiato come uno dei miracoli della musica e della antropologia.
Allo stato di rarefazione della tecnica accosto la consapevolezza di aver proposto, vobiscum, lo stile più altro ed evoluto, “nomon tiqhmi” (nomon tithemi), il modo più accorto di affrontare una partitura anche la più lontana dalla classicità con il rigore della tecnica e il rispetto dell’equilibrio delle sonorità, avendo in orrore la brodaglia rabelaisiana di una ipertrofia dinamica senza misura.
E questa mattina tutto questo è successo, nel luogo giusto, con le persone giuste: nessuno alzerà mai non dico la mano ma neanche la voce contro una associazione che manda sul campo un coro così eletto. Sia chiaro che il merito morale maggiore è di Claudio Belia.
Vostro, in Janequin: Joseph Kantor GA